"Salmoni sul Kitimat River"       di Tognelli Vinicio     


In lotta con un salmone sul Kitimat River

La strada che in alcuni tratti costeggiava  il Kitimat River procedeva  per molti chilometri al limite di una  foresta così estesa,  che in alcuni punti non riuscivo a vederne la fine. Nonostante qualche volta il percorso ondulato mi permettesse di spingermi molto lontano con la vista  quello che vedevo erano solo alberi. Alberi e ancora alberi a perdita d'occhio, tanto folti da essere quasi impenetrabili. Il paesaggio che scoprivo dopo aver superato ogni modesta curva della strada  mi appariva  continuamente diverso,  straordinariamente interessante e pieno di sorprese. Come quando, poco dopo aver lasciato Terrace ed aver percorso alcuni chilometri in direzione della cittadina di Kitimat nel nord-ovest della British Columbia, una immagine sfuocata apparsa fra la foschia  all'orizzonte, mi aveva fatto pensare che quello che vedevo fosse il mare, l'Oceano Pacifico. Ma era solo un'illusione ottica, un miraggio creato dalla mia fantasia nella  rielaborazione del paesaggio; il mare era ancora lontano. I sensi, in questo caso la vista, mi avevano ingannato. Un fatto piuttosto comune nella vita di ogni giorno che però mi ricordava quanto sia importante distinguere sempre tra "apparenza" e "realtà", fra quello che le cose sembrano essere e quello che sono veramente. Quella vasta distesa d'acqua che riempiva l'orizzonte era  un grande lago chiamato Lakelse, da cui si formava un fiume tributario dello Skeena River, il "Fiume delle Nebbie"  nella lingua dei "nativi" che abitavano queste terre, tanto tempo prima dell'arrivo degli esploratori europei. Alcuni dei  posti che attraversavo mi sembravano così invitanti che non avevo saputo resistere al desiderio di vederli con calma più da vicino.  Certo che se avessi assecondato il mio primo impulso, mi sarei dovuto fermare continuamente e questo non era possibile perché avrei dovuto modificare i miei programmi. D'altra parte quanto vedevo era qualcosa di totalmente nuovo per i miei occhi, aveva un fascino unico ed assumeva  un significato speciale. Perciò, per appagare la mia curiosità avevo effettuato diverse soste  parcheggiando l'auto ai bordi della strada, a volte  percorrendo brevi tratti dei sentieri che si inoltravano nella foresta boreale
Così per esempio mi ero fermato nei pressi di un piccolo torrente di acqua trasparente come un diamante, dove avevo potuto  osservare dei Red Salmon in "frega"  nella loro bella livrea nuziale color cremisi. I movimenti lenti e sensuali dei salmoni sembravano una danza ipnotica di seduzione. Una visione incantevole e commovente. Poco più tardi un ponte aveva stimolato il mio interesse costringendomi ad una nuova sosta. L'acqua del fiume sottostante, formava verso valle una grande e profonda lama di un intenso colore verde  smeraldo, mentre dall'altro lato, verso monte, l' acqua più bassa scorreva in un letto ciottoloso più ampio, e spariva lontano nel verde ai piedi di una montagna, come  una vena di sangue rosso porpora pieno di linfa vitale, giunge in superficie spinta dal cuore pulsante  della vita e poi scompare  alla vista, inoltrandosi nelle profondità invisibili. Qui erano per lo più i Pink Salmon in amore che riempivano il fondale del fiume. Dai "letti di frega" in acque basse, si vedevano spuntare, appena fuori dalla superficie, le  gobbe e le pinne
dorsali di decine di Pink maschi, fisicamente Alessandro con un Pink Salmon deformati dalla fase riproduttiva in maniera quasi grottesca, che si lasciavano  dondolare come vele alla deriva.  I maschi che  mi sembravano più numerosi e  in competizione fra loro, cercavano di mantenere il dominio sulla femmina conquistata, scacciando, con veloci ed intimidatorie rincorse, il pretendente che tentava di insinuarsi fra la coppia. Dopo ogni scontro, il maschio tornava dalla femmina, che dava l'impressione di non curarsi molto di quanto  le accadeva intorno e si avvicinava il più possibile a lei, cercando di appoggiare la zona della sua pinna dorsale sul suo fianco. Sembrava che la femmina accettasse volentieri le "affettuose" attenzioni che il maschio le riservava, assecondandone le  iniziative. Capitava  spesso però, anche il caso che un nuovo spasimante, riuscisse ad allontanare il maschio che aveva già formato la coppia con una femmina e prendesse il suo posto, in un gioco continuo che poteva proseguire all'infinito.
In seguito mi ero fermato in un posto  dove la vegetazione si apriva e lasciava scoperta una grande ansa del Kitimat River.  La foresta di abeti, mista ad aceri a pioppi e ad un' abbondante varietà di erbe e piante del sottobosco, dominava con le infinite sfumature del verde il paesaggio naturale, con  le lunghe rive di  pietra del fiume e le montagne a chiudere le quinte di uno scenario maestoso. Associavo le meraviglie che avevo davanti a me e che non riuscivo ad abbracciare solo con la vista, ad  un'armonia straordinaria, ad un grande concerto  diretto da un maestro d'eccezione. Cercavo di immaginarmi quale musica avrebbe potuto costituire la colonna sonora più adatta alla grandiosità della rappresentazione che la natura aveva creato e che parlava direttamente al cuore. Ripassai mentalmente il repertorio  che conoscevo  e conclusi  che  sarebbe stato difficile scegliere  la musica  che  preferivo fra le tante che ricordavo. Considerai però che forse, disturbare quel silenzio assoluto, sia pure con sinfonie o melodie di eccezionale bellezza,  rotto solamente dai suoni prodotti direttamente dalla voce della natura, dal soffio leggero del vento fra le foglie degli alberi o dal suono dell'acqua del fiume che scivolava verso valle, sarebbe stato quasi sacrilego. Fui distolto dalle mie riflessioni quando mi accorsi che nel centro del fiume, lontano un centinaio  di metri da dove mi trovavo, sopra il ramo di un grande albero morto trasportato dalla corrente e incagliato nella sabbia del fondale,  c'era  un aquila dalla testa bianca. Era sola, e se né stava impettita e vigile come una sentinella. Col binocolo potei osservare  più attentamente alcuni particolari,  come il piumaggio bianco candido della testa, il becco adunco e gli occhi freddi, acuti e penetranti.  Sembrava tranquilla  e pensai che non mi avesse visto, ma mi sbagliavo perché  un attimo dopo si alzò in volo e battendo le ali grandi e possenti, si diresse a monte del fiume in una posizione contraria a dove io mi trovavo. Rimasi affascinato a guardarla fino a quando scomparve lontano. I  "nativi  americani"  ammiravano l'aquila  per la sua bellezza, per  la grande  capacità nel volo che gli permette di innalzarsi a grandi altezze, per la vista ineguagliabile con cui riesce a vedere a grande distanza, così acuta che nulla sfugge ai suoi occhi. Per  il "popolo degli uomini", l' aquila era sinonimo di forza, di perizia, velocità e fierezza ma anche di crudeltà.  Oltre a queste interpretazioni per così dire concrete, i "nativi" attribuivano a questo animale,  significati simbolici e spirituali profondi. L'aquila era un animale, "sacro", volava  più in alto di qualsiasi altro essere alato ed era quindi molto vicina al "Grande Spirito". "L' aquila era un  messaggero di "Wakan-Tanka" e le sue piume  parti dello spirito dell'universo".

Haida-Skidegate by Gordon Miller

"Tra tutte le creature alate l'aquila"
 è quella che vola più in alto ed 
 è quindi simbolicamente quella 
più vicina a colui che ha dato
la vita all'Universo"

Buffalo Jim  -  Seminole

Anche i  Sioux per esempio,  vedevano nell'aquila la presenza di "Wakan-Tanka",  "il Grande Mistero", che vive nelle profondità dei cieli e che è il centro di tutte le cose". Una leggenda racconta come loro stessi discendano  dall'aquila.

"Un tempo lontano ci fu una grande inondazione e tutti gli uomini furono spazzati via. Si salvò solo una fanciulla che un'aquila macchiata afferrò con i suoi artigli e portò sulla cima delle "Black Hills".  L'aquila e la ragazza si amarono e il frutto della loro unione furono due gemelli: un maschio ed una femmina. In seguito le acque si ritirarono e i due bambini scesero dalla montagna. Crebbero, si unirono ed ebbero tanti figli. Così si formò la nazione Sioux." 

Cervo Zoppo  -  Sioux

Nelle cerimonie di investitura dei nuovi "capi", scelti fra i migliori giovani della tribù, ad ogni ognuno di loro veniva appuntata un'unica penna d'aquila fra i capelli, orizzontale come la linea in cui la terra tocca il cielo.  Il guerriero che indossava l'acconciatura  di guerra di penne d'aquila diveniva l'aquila stessa.  "Una penna d'aquila verticale,  come   portavano  molti  indiani  ed in particolare i grandi capi leggendari come "Tatanka Yotanka" (Toro Seduto), indicava il rapporto spirituale tra l'uomo e il Grande Spirito".

  Bambino Wichita vestito per la Danza Rituale                                Tatanka Yotanka, Toro Seduto                                  Bambina Umtilla

Ancora ai giorni nostri sono numerosi coloro che usano l'immagine  dell'aquila, uno degli animali sicuramente più belli dell'intero mondo vivente e più carico di suggestioni simboliche, per scopi certo assai diversi dalle motivazioni spirituali e mitiche dei "nativi americani".  Con il pensiero rivolto al loro mondo magico e al legame  armonioso da loro instaurato con la natura e certamente non dimenticando come siano stati trattati uomini donne e bambini indiani senza distinzioni alcuna, da gente che non aveva nulla di umano, pianificandone anzi in maniera consapevole il genocidio, ripresi il mio viaggio, cercando di non dare ascolto ai continui richiami alla sosta che il paesaggio mi sussurrava. La strada  che stavo percorrendo era poco frequentata, le auto ed i grandi camion che transitavano erano molto rari e la presenza umana  estremamente  bassa, quasi inesistente. Giunsi così alle prime case della cittadina  di Kitimat. La zona periferica si trovava in una posizione elevata che consentiva di vedere lontano verso i contrafforti del "Douglas Channel", il fiordo dove il " Kitimat River" finisce la sua corsa e mescola le sue acque con quelle dell'Oceano Pacifico immenso. Superai la piccola cittadina e dopo un tratto di strada sterrata mi fermai nei pressi di un edificio a ridosso del fiume, chiuso da una sbarra di ferro. Scesi e mi incamminai sul sentiero che lo costeggiava.  Il cielo grigio era carico di nuvole pesanti e  scendeva una pioggerella  fine come sabbia che a malapena bagnava. Un vento leggero ma freddo soffiava dall'Alaska e si insinuava nei vestiti provocando un brivido di gelo. La luce diffusa  toglieva spessore ad ogni cosa. Mancavano le ombre che danno il senso della profondità ma la luce che scendeva da quel cielo imbronciato pareva un velo d'argento steso con la grazia dell'immacolato e lieve copricapo di una sposa.
L'edificio dipinto di un colore giallo ocra  era una "hatchery", un' allevamento  dove ogni anno venivano allevati  migliaia di  salmoni e poi liberati nel Kitimat River.  Entrai nel piazzale aperto dell'edificio ed osservai su una parete, dei cartelli semplici ma ben fatti, corredati da disegni  a colori che illustravano il ciclo riproduttivo delle cinque specie di salmoni dell' Oceano Pacifico, quali il Choco, il Chum, il Chinook, il Pink e il Sokeye dalla nascita alla seguente migrazione verso il mare. Non ricordo se questi cartelli spiegavano anche il ciclo riproduttivo della Steelhead, considerata un tempo una forma "anadroma", migratrice, della trota iridea ed oggi inserita fra i salmoni. In effetti quello che differenzia la straordinaria "Testa d'Acciaio" - un pesce enormemente ambito suo malgrado, da ogni pescatore a mosca - dai salmoni del pacifico, è che dopo la risalita dal mare e la riproduzione non muore, cosa non trascurabile, ma  può ritornare nel mare e  ripetere più volte lo stesso processo. 
Nella vita  dei salmoni mi ha sempre affascinato il complesso, ed in parte ancora oscuro fenomeno, chiamato  in inglese "Homing" , cioè il "ritorno a casa", la risalita  nel loro fiume di origine per la riproduzione. Una cosa del tutto simmetrica e contraria avviene nella vita delle anguille. Un fatto curioso, considerando che hanno un ciclo vitale esattamente capovolto rispetto a quello dei salmoni. 
I salmoni del pacifico, nascono nel fiume e dopo una permanenza in acqua dolce, che varia secondo la specie ma nel caso del Cocho di un paio d'anni, necessari al loro sviluppo, scendono al mare, dove sostano alcuni mesi nella foce del fiume presumibilmente per adattarsi all'acqua salata e al nuovo tipo di alimentazione. In seguito percorrono migliaia di chilometri per recarsi  nei pressi delle grandi correnti oceaniche nella zona delle Isole Aleutine a nord dell'Oceano Pacifico, dove restano alcuni anni aumentando notevolmente le loro dimensioni. Un giorno, a seguito di una irresistibile modificazione indotta dal loro patrimonio genetico, vengono spinti ad abbandonare il mare e a ripercorrere lo stesso itinerario in senso contrario. Meccanismi ignoti che possono essere solo ipotizzati, come la natura chimico organica del fiume nel quale sono nati, i minerali sciolti nell'acqua dalla terra e dalle pietre, la posizione del sole, il magnetismo terrestre e probabili forze elettriche a noi sconosciute gli permettono di ritrovare esattamente il loro fiume di nascita, che risalgono per accoppiarsi, riprodursi e poi morire. Le anguille al contrario nascono in mare, sostano per un certo periodo di tempo alla foce dei fiumi, dove aumentano di dimensione, che poi risalgono verso le sorgenti.  Qui vivono diversi anni, circa dieci, fino a quando raggiunta la maturità sessuale, ritornano al mare e percorrono migliaia di chilometri per recarsi nel Mar dei Sargassi nell'Oceano Atlantico, dove si accoppiano per riprodursi e poi, anche loro morire. 
Ricordo perfettamente, con una certa nostalgia, quando da bambino andavo a catturare le "ceche", come vengono chiamate da noi fiorentini, che in estate con le acque basse a migliaia risalivano, come piccoli e veloci siluri guizzanti, le pescaie della Greve a Scandicci. Mi mettevo a metà della pescaia che aveva una pendenza di circa 45 gradi, in senso contrario alla corrente e stando attento a non scivolare sul borraccino, tenevo una mano appoggiata sul cemento per sostenermi, mentre con quella libera afferravo le piccole anguille di venti o venticinque cm,  con una presa ferrea dietro la testa che poi infilavo in un fitto retino che tenevo appeso alla vita. Se perdevo l'equilibrio, scivolavo per alcuni metri fino alla base della pescaia rischiando di farmi del male. Cosa che succedeva spesso ma per fortuna non mi feci mai nulla.
Uscendo dall'allevamento e proseguendo pochi metri più avanti nel sentiero, là dove uno slargo scendeva come un approdo per barche direttamente nell'acqua del fiume, rimasi stupito dalla grande quantità di "Chinook", chiamati anche "King", di  enormi dimensioni che cercavano di risalire la corrente. Erano di colore marrone scuro-rossiccio ed erano così fitti che riempivano completamente quella parte del fiume. Stazionavano in prossimità della superficie e affioravano con la loro pinna dorsale. Sembravano "ninfeggiare" come spesso fanno le trote  quando escono fuori dall'acqua con la schiena mostrando solo la pinna dorsale. Ogni tanto un salmone si proiettava in un salto, uscendo completamente dall'acqua come volando, ricadendovi poi, con tutto il peso delle sue misure esagerate, rumorosamente in una caotica esplosione di schizzi. Alcuni  di loro mostravano ormai i segni del decadimento organico.  I più vecchi, quelli che per primi erano giunti dal mare, obbedendo al richiamo antico della riproduzione, ed erano poi faticosamente risaliti lungo il corso del Kitimat River, avevano il corpo ricoperto di macchie bianche, di piaghe più o meno estese, manifestazione del crudele  destino scritto nel loro patrimonio genetico di specie che, tra non molto, come ho già anticipato, li avrebbe condotti tutti quanti alla morte. Cercai di non pensarci anche se, come spesso avviene in natura, la loro morte significava la vita per molte altre creature: orsi, gabbiani, aquile, senza contare che i loro corpi decomponendosi avrebbero arricchito il fiume di sostanze nutrienti per gli invertebrati e quindi per i piccoli dei salmoni che presto, dopo la nascita ed il breve intervallo di vita grazie al sacco vitellino, avrebbero cominciato ad alimentarsi. Guardando il fiume da quella posizione mi  aveva incantato nuovamente la grandiosità del paesaggio. Il fiume scendeva placidamente circondato da fitte foreste di abeti e  montagne boscose. Alcune, più lontane, pur essendo in agosto, avevano la cima  imbiancata  di neve e nubi vaporose sospese sui pendii. Avevo l'impressione  psicologica che tutto si muovesse molto lentamente e che la natura mi invitasse alla calma e ai suoi ritmi. I pochi pescatori sulla riva opposta, inseriti in questo scenario mozzafiato, mi erano sembrati assorti ed i loro movimenti rilassati e distesi. Sentii il  desiderio di  trovarmi dall'altra  parte. Quella spiaggia lunga e sassosa mi sembrava in una posizione perfetta per affrontare i "giganti" che avevo visto per la prima volta. Ripresi l'auto e dopo pochi minuti entrai in un strada sterrata  piena di buche che penetrando direttamente nella foresta conduceva nelle vicinanze della sponda del fiume che volevo raggiungere. Mi fermai in un piccolo spazio fra gli alberi. Scesi, indossai i vestiti da pesca e mi incamminai.
Percorrendo lo stretto sentiero nella foresta che circondava il fiume, notai alcuni segnali lasciati dagli orsi, delle impronte e profondi graffi sui tronchi degli alberi che incutevano un certo timore per un  indesiderato incontro ravvicinato con il re del "grande nord". La terra era ricoperta da elementi in decomposizione, foglie vecchie, rami contorti colonizzati dai licheni. L'aria profumava di  essenze selvatiche, di erba, di terra, degli odori penetranti e indefinibili del bosco. In uno slargo aperto nell'intrico della vegetazione, un albero, con il tronco di un diametro così enorme che per abbracciarlo ci sarebbero voluti diversi uomini, svettava  nel cielo alto come un campanile. Doveva avere alcuni secoli di vita ed era la memoria della foresta. Il suo tronco era ricoperto di muschio morbido come velluto.  Chissà quante storie  avrebbe potuto raccontarmi se avesse potuto parlare. Avevo la sensazione che qualcosa di impalpabile aleggiasse intorno al grande albero, una energia invisibile, una forza che aveva il compito di vigilare, proteggere quel luogo e comunicarmene la magia. Mi guardai intorno e non vidi nessuno ma pensai che qualche folletto mi osservasse dai rami di quell'albero smisurato. Gli indiani dicono che gli alberi parlano e forse sono io che non riesco a sentire la loro voce.  Provai ad abbracciare l'albero e ad appoggiare la testa sul suo tronco cercando di percepire le sue vibrazioni, i suoi movimenti interni.  Le radici  degli alberi che scendono nella terra ed i rami che  giungono alti nel cielo mettono i due mondi in comunicazione. La  terra li nutre come una tenera madre mentre i rami carezzati dall'aria e dal sole portano il calore fondamentale al loro perenne rinnovarsi.  In questo ciclico processo gli alberi liberano l'ossigeno, l'elemento essenziale che permette a noi uomini di esistere. E' stato considerato che tutti gli esseri vegetali presenti sulla terra, concorrono nell'arco di duemila anni a rinnovare tutto l'ossigeno dell'atmosfera terrestre. Si forse l'albero parlava del mistero della vita e del legame che unisce tutte le creature della terra.
 

"Sai   che  gli  Alberi Parlano?  Si  parlano. 
 Parlano  l'uno  con   l'altro  e  Parlano
 a  Te  se  li  stai  ad  Ascoltare"

Tatanga Mani

Poco più avanti gli abeti maestosi e cupi, giungevano al limite della terra con l'acqua e seguivano  passo passo il corso del fiume. Alcuni sembravano in un equilibrio precario, sospesi, piegati e rivolti verso l'acqua, dove fra non molto  sarebbero sicuramente precipitati. Altri grandi alberi li avevano già preceduti ed erano distesi al suolo e sulla riva. Lontano da qui, in una zona  più isolata  e selvaggia, avevo osservato lungo il corso del fiume grandi cataste di tronchi, trasportati come ramoscelli dalla potenza  dell'acqua che sembravano, nel loro disordine, accomodati quasi con precisione certosina dalla mano di un titano.  Un lavoro di distruzione creativa, di  trascinamento e di corrosione, che  scava le sponde, trasforma, modifica  e modella  la roccia e col tempo, implacabile, riduce le dimensioni di tutto quello che incontra nel suo cammino. I tronchi che ora vedevo distesi vicino alla riva del fiume, una volta alberi imponenti, avrebbero seguito lo stesso destino. Ma finalmente avevo raggiunto la  spiaggia  sassosa che poco prima, quand'ero alla "hatchery", mi aveva conquistato con la sua conformazione ideale.  
Il fiume visto da quella posizione era molto largo e dopo un tratto dritto,  più tranquillo e profondo, disegnava una  curva in leggera discesa dove l'acqua aumentava di velocità formando una morbida corrente. Dove cambiava  velocità  la profondità dell'acqua diminuiva ed il fondale vicino alla riva era ricoperto di pietre di varie dimensioni e colori.  Alla mia destra, fino a dove riuscivo a spingermi con lo sguardo, l'acqua scorreva libera senza nessun ostacolo diretto. Anche a sinistra,  dove la corrente si placava per dar vita ad un tratto di fiume  incantevole, limitato da una lunghissima spiaggia ciottolosa da un lato  e da una parete di alti abeti dall'altro che lo fronteggiava, l'acqua  smeraldina era più  profonda, calma, leggermente ondulata e niente rallentava il suo corso. A circa metà strada questa corrente riceveva da sinistra, un piccolo ramo secondario d'acqua quasi ferma, largo parecchi metri e profondo intorno al mezzo metro. Avevo attraversato poco prima questo braccio d'acqua per arrivare dove ora mi trovavo. Camminando nell'acqua  bassa vicino a riva, facendo attenzione a dove mettevo i piedi, avevo visto  fra i giochi di luce ed i sassi, piccoli pesciolini ben mimetizzati, quasi invisibili. Sui loro fianchi riuscivo a distinguere la punteggiatura tipica dei salmonidi.  Nuotavano elegantemente nell'acqua bassa e trasparente  affiancati o in fila uno dietro all'altro, scartando ogni tanto di lato o eseguendo un breve  e veloce scatto in avanti. Dopo pochi attimi ritornavano nella loro posizione iniziale, dalla quale si spostavano per la verità solo di poco, seguendo un impulso, per me, misterioso. Sembravano essere perfettamente in grado di opporsi alla corrente e nonostante facessero tenerezza per le loro ridottissime dimensioni, trasmettevano una grande  impressione di forza.  Quando ero piccolo, nella buona stagione estiva, come ho detto, passavo molto del mio tempo, sguazzando  nell'acqua dell'Arno a Firenze dove vivevo, oppure nella Greve a Scandicci dove andavo a passare le vacanze scolastiche dai miei nonni materni. Con i miei amici chiamavamo questi pesciolini, "nascitine". Erano così piccoli che per noi erano tutti uguali, non facevamo nessuna differenza, anche se sapevamo distinguere perfettamente un piccolo  "barbo" da una piccola "lasca".  Quelli che ora osservavo così lontano dai fiumi della mia infanzia erano "nascitine" di salmoni, pesciolini di poche settimane di vita
      

La canna Sage ed un bellissimo salmone Silver

Old Kasan Village by Gordon Miller

Dalla parte opposta del fiume, proprio davanti a me, una parete di grandi alberi riparava alcuni pescatori che, in piedi su una spiaggia sabbiosa, lanciavano le loro esche verso il largo. Molti di loro utilizzavano la tecnica del  cucchiaino con alcune varianti per così dire locali. Iniziai  con calma il rituale che precede l'azione di pesca.  Avevo atteso per tanto tempo questo momento, ed ora che era arrivato volevo assaporarne lentamente tutto il piacere centellinandolo  goccia a goccia. Cominciai a montare la canna da salmoni a due mani che, per inciso usavo per la prima volta in vita mia. Si trattava di una Sage di carbonio in tre pezzi, lunga 14 piedi, per coda 10: serie GFL 10140-3. Una canna di notevole potenza e in grado di effettuare shooting lunghissimi senza particolari difficoltà, conservando al contempo una azione gradevole e delicata. Adatta per pescare salmoni anche di notevoli dimensioni, nei grandi e ricchi fiumi dell'area a nord della British Columbia dove mi trovavo, come appunto il  Kitimat River ed il bacino dello Skeena River.

   Chartreuse                Babine Special                 Egg Sucking Leech

Infilai i tre pezzi di carbonio con attenzione e poi misi il mulinello sull'impugnatura della canna. Sul mulinello avevo montato un backing di dacron  da 30 lb al quale avevo collegato una coda Teeny da 300. Il finale era un 20 lb di circa un metro e mezzo. Aprii quindi la scatola delle mosche e mi soffermai ad osservarle  un po' disorientato.  Tutte le "mosche" che avevo nelle scatole erano copie di modelli ormai ben collaudati e famosi fra i pescatori di salmoni. Le avevo costruite con molta cura nelle lunghe sere invernali, seguendo i consigli di amici e prendendo le indicazioni da varie fonti, io personalmente non avevo inventato nulla. Per documentarmi mi ero procurato anche alcuni libri sull'argomento, considerati fondamentali,  mentre nelle riviste di pesca che possedevo avevo cercato informazioni che mi potessero aiutare. Ma ora  giunto al momento di scegliere mi sentivo incerto. Erano affascinanti e sconcertanti  le mosche nei colori accesi ed irreali delle piume con cui le avevo costruite, rosso, verde pistacchio, fuxia, rosa, giallo canarino. Abbagliavano e mi ricordavano lo sfolgorante abbigliamento di Jimmy Hendrix a Woodostock, una specie di allucinazione psichedelica. Era evidente che non avevano proprio nulla dell'imitazione più o meno fedele agli insetti, delle "mosche artificiali" che usiamo generalmente per la pesca delle trote o dei temoli, nei nostri fiumi in Italia. Anzi qui sembrava finalmente risolto  il dubbio amletico sull'imitazione esatta o di fantasia, che tanto ha impegnato in passato i seguaci dell'una o dell'altra teoria. Certo spiegazioni sul perché i salmoni e le steelhead prendano le nostre coloratissime mosche né sono state date molte ed alcune sono sicuramente convincenti. La prova più convincente però resta il fatto che questePink Floozy "mosche"  catturano   davvero, sia  salmoni che steelhead e di questo ero sicuro.  Nell'acqua   che  scendeva   silenziosa   proprio a pochissimi metri da me, vedevo delle ombre scure che si muovevano controcorrente in viaggio verso un futuro ignoto, forse carico di promesse ma  comunque  inevitabile. Misi  momentaneamente  da   parte   l'analisi sulla  mosca   esatta  e ricordandomi  il consiglio di un amico che aveva pescato in questi fiumi,  decisi di provare una mosca piuttosto grossa, di colore rosa, simile alla Pink Flozy ma con un lungo  pelo di cervo tinto rosa, al posto delle piume di marabou. Più tardi, avrei fatto gli aggiustamenti necessari, seguendo l'istinto e l'aiuto che ero certo, mi avrebbe fornito l'esperienza accumulata nei tanti anni di pesca con la mosca. Oltretutto pensavo che, lasciare un certo margine al caso, all'imprevedibile, fosse  necessario per non perdere il piacere della sorpresa e non ridurre tutto ad una cosa scontata, noiosa e arida.  Dopo molti anni credo di aver capito come sia quasi impossibile racchiudere in una formula da seguire come in un decalogo per la via al "successo" le regole della pesca a mosca. Non voglio dire che non esistono delle regole che devono essere rispettate, voglio dire che non esiste un decalogo. A mio modo di vedere la pesca a mosca si fonda  su elementi molto sottili e vaghi, su qualità comuni a tutti ma che in alcuni sono più accentuate, come la capacità di percepire i segnali che derivano dall'osservazione attenta della natura, la fantasia, l'istinto, a cui si può aggiungere spesso anche un briciolo di fortuna e come dicevo, l'imprevisto. Certamente utilizzare una imitazione di "May Fly" nel bel mezzo di una schiusa di Ephemerella Ignita, denoterebbe una totale noncuranza per le regole più elementari che, mi auguro, nessun mediocre pescatore a mosca ignori, ma anche una assoluta mancanza di buonsenso e una sconfinata fiducia nell'imprevisto che rasenta il fatalismo. Ma ormai, anche se chiaramente con una scelta poco razionale avevo deciso l'imitazione che volevo utilizzare. Mi sentii più tranquillo e legai al finale con un blood knot, la mosca "Rosa" che avevo scelto. Nel momento in cui la legavo avevo fatto una curiosa associazione mentale fra la mosca "Rosa", la Rosa  come fiore e il rosa inteso come colore, collegandoli al racconto di un mito. Il mito diceva che un tempo, le Rose erano bianche e che il colore rosa è il segno di un loro antico e gentile delitto. Venere la meravigliosa dea dell'amore  un giorno passeggiando nel giardino degli Dei, non si accorse della rosa che sfiorò con una mano. La Dea fu trafitta da una spina e il suo sangue macchiò per sempre i petali bianchi del fiore. Per questo, da allora, non ci sono più soltanto Rose bianche, ma anche rosse e rosa. Un saggio proverbio dice inoltre, "non c'é rosa senza spine", cosa che aveva scoperto anche la Dea dell'amore,  ed in effetti anche la mosca "Rosa" che avevo preferito, come tutte le rose, aveva una spina, l'amo! Tagliai il nylon eccedente e misi in bocca la mosca per bagnarla di saliva, in modo da facilitarne la discesa veloce nell'acqua. Il fatto che usassi una coda Teeny affondante non richiedeva questa operazione. Probabilmente era un'operazione  superflua ma bagnare con la saliva le mosche sommerse era  una mia vecchia abitudine, un gesto scaramantico oltre che utile. Inoltre, la mosca in pelo di cervo che avevo scelto, essendo molto voluminosa, si sarebbe comportata come una mosca secca fino a quando non  si fosse appesantita d'acqua.  Io invece volevo che fino dai primi lanci la "mosca" scendesse immediatamente sul fondo, per lavorare nella zona di transito dei salmoni.  In tanti  mi avevano ripetuto che se la "mosca" non avesse agito sul fondo sarebbe stato molto difficile realizzare qualche cattura. Scoprii in seguito come sia insufficiente preoccuparsi solo di questo particolare  e come sia invece importante dedicare una grande cura al modo col quale la nostra mosca si presenta ai salmoni. Una cosa che si apprende col tempo con l' impegno e la  tenacia, a prezzo di delusioni e amarezza come è successo anche a me, e affinando la tecnica e la sensibilità percettiva. 
Stirai il finale molto bene  per eliminare ogni eventuale spirale, fino a  quando il nylon fu perfettamente teso e diritto. Tirai fuori dal mulinello sette o otto metri di coda e cominciai a sollevarla con dei volteggi. Continuai ad allungare il lancio fino ad avere in aria circa dieci, dodici metri in tutto fra coda e finale. Posai la "mosca" con uno shooting ad una quindicina di metri lontano da me leggermente obliqua verso valle. L' acqua correva più di quanto pensassi ed appena la coda inizio e scendere verso il fondo sollevai la canna ed effettuai immediatamente il "mending". Rilasciai la coda tenendola in tensione cercando di mantenere la mosca davanti senza farla dragare. Sentivo la pressione che dalla coda spinta dal peso della corrente saliva all'impugnatura. La mosca doveva strisciare sul fondo perché avvertivo molto chiaramente il contatto con le pietre, anche se  ovviamente non le vedevo Dei colpetti impercettibili giungevano alle mie mani che tenevano l'impugnatura della canna ben salda, anche se  in modo non rigido. La mosca nella sua discesa effettuava un arco che dal punto da dove l'avevo lanciata tagliava come una mezzaluna il fiume. La posavo quasi dritta davanti a me e poi prima col "mending" e poi tenendola tesa la conducevo  sulla sponda dalla quale pescavo, verso  valle a una ventina di metri. Nella zona dove la lanciavo, l'acqua era più profonda, ed avevo la percezione che ci fosse quasi uno scalino che divideva la zona più calma da quella più veloce. Dopo diversi lanci senza nessun risultato, provai ad effettuare dei lanci più lunghi per far sì che la mosca esplorasse una zona ancora più lontana, verso il centro del fiume che in quel punto era molto largo. Ora tenevo la vetta della canna più bassa, quasi vicino all'acqua, lasciando che la coda venisse trascinata dalla corrente ma tenendola sotto controllo per impedire alla mosca di dragare, di muoversi cioè non ad una velocità superiore  ma alla stessa velocità della corrente, senza scie innaturali e sospette. Come ho detto era fondamentale che la mosca giungesse libera, pulita e per prima davanti ai salmoni. Insistei per un po' di tempo, applicando alcuni accorgimenti tipici della pesca sommersa con lo scopo di aggiungere vitalità all'imitazione, senza nessun risultato, poi recuperai la coda e fermai la mosca vicino all'impugnatura della canna. Dietro di me c'era un vecchio albero disteso a terra. Mi misi a sedere sul suo tronco per fare  una breve pausa. 
Uno stormo di gabbiani assai rumorosi occupava l'altro lato del fiume dove l'acqua era molto bassa. Si alzavano in volo, facevano alcuni giri sopra la stessa zona  e poi planavano sul fiume posandosi vicino alla riva. Laggiù dove volavano i gabbiani, non lontano dalla riva sassosa, i salmoni rompevano spesso la superficie dell'acqua nuotando come delfini. Se un salmone saltava alto fuori dall'acqua, un suono cupo richiamava la mia attenzione. Ma era solo un attimo e immediatamente tornava il silenzio. Dalla cima degli abeti  alla mia sinistra vidi sbucare, un falco che volava abbastanza alto sul fiume. Di dimensioni molto più piccole dell'aquila aveva il petto chiaro e il resto del piumaggio di colore marrone. Planò lentamente scendendo di quota e iniziò a volare in circolo ripetendo diversi passaggi sulla stessa zona di fiume. Potevo osservare agevolmente i suoi movimenti trovandomi a poca distanza. Ad un certo punto si fermò nell'aria battendo assai velocemente le ali e assumendo una posizione eretta, con la testa piegata verso il basso per scrutare il fiume con attenzione. Doveva trattarsi di un movimento  piuttosto faticoso, anche se rimaneva abbastanza a lungo in quella posizione. Osservava attentamente qualcosa nell'acqua ed era evidente che stava cacciando. Non avevo mai visto una cosa del genere e continuai a guardarlo incuriosito. Ripeté diverse volte la stessa azione rimanendo spesso immobile nell'aria, agitando le ali molto rapidamente e poi volare di nuovo in cerchio. Mi aspettavo che succedesse qualcosa ed infatti dopo una nuova sosta, forse più lunga delle precedenti, si gettò verso il suolo aumentando la velocità. Arrivato a pochi metri dalla superficie del fiume chiuse le ali e si gettò nell'acqua da cui riemerse un attimo dopo con un pesce fra gli artigli. Scosse le ali per liberarle dall'acqua  che si diffuse nell' aria come una cascata di perle scintillanti e faticosamente riprese il volo in direzione della foresta tenendo il pesce fra gli artigli. Superò gli alberi e scomparve. La vista del falco riportò alla mia mente un episodio della mia infanzia, quando una sera, seduto sulla canna della bicicletta con il nonno Guido stavamo andando in piazza a Scandicci. Il tempo era  perturbato e  un forte vento soffiava scuotendo gli alberi. La luce fioca di un lampadina pubblica illuminava debolmente la strada e il muro scrostato di una vecchia casa. Improvvisamente giunse come un ombra dal cielo scuro, un uccello di grandi dimensioni di colore marrone, che precipitò sul muro illuminato. Batté più volte le ali nel disperato tentativo di riprendere il volo mentre con gli artigli potenti cercava  un appiglio sul muro per afferrarsi. Non ci riuscì e continuando a graffiare inutilmente quella parete scalcinata iniziò a scivolare in basso. Il nonno si fermò e mi fece scendere dalla bicicletta ma la mia presenza lo rallentò, io ero molto piccolo. In quell'attimo giunse un signore, anche lui in bicicletta, che rapidamente scese ed afferrò l'uccello, lo infilò sotto la giacca, risalì in sella e se né andò. Il nonno ci rimase male perché avrebbe voluto prendere l'uccello per aiutarlo a riprendere il volo, e non c'era riuscito. Mi spiegò più tardi che l'uccello era un falco, che poteva volare altissimo ed aveva bisogno di tanto spazio per vivere libero e che forse, un forte colpo di vento lo aveva fatto cadere. 
Tornai al mio posto e ricominciai a pescare. Non volli sostituire la mia mosca "Rosa" e  dopo alcuni volteggi lanciai più o meno nella stessa zona dei lanci precedenti. La canna anche a causa della lunghezza era piuttosto pesante e si faceva sentire. Effettuai subito il "mending" e misi la coda in tensione. Quando la mosca si trovava circa al centro della corrente, scesa sul letto di quel fiume antico, la sentii battere sui sassi del fondo del fiume e per un momento  ebbi l'impressione di essere rimasto impigliato fra le pietre o ad un ramo sommerso. Un attimo in cui feci molte supposizioni. Ma poi ebbi la conferma che un salmone doveva aver preso la mosca quando un colpo secco scosse la canna. Non ebbi il tempo di pensare e feci l'unica cosa che dovevo fare, sollevai la canna e ferrai! Sì ferrai con un certo impeto, probabilmente eccessivo. In seguito avrei ripensato spesso a questo particolare. Il salmone aveva attaccato la mosca con rabbia e dopo averla presa con la bocca doveva aver girato la testa per portarla via.  In questo modo il colpo si era trasferito alla canna ed io avevo ferrato. La coda si era  tesa improvvisamente sollevandosi dall'acqua e il salmone con la mosca in bocca, era partito come un fulmine a grande velocità.  Esercitava sulla mosca  una forza enorme  che si trasferiva alla canna, dandomi l'impressione  di avere agganciato qualcosa di smisurato. Dal mulinello scorreva con un sibilo il backing giallo fluorescente che il salmone, nella sua fuga disperata, estraeva ad una velocità terrificante tagliando la superficie dell'acqua come la pinna di uno squalo. Miliardi di invisibili goccioline d'acqua  sollevate nell'aria dalla coda si scioglievano lasciando una nuvola sospesa. Tenevo il palmo della mano appoggiato sul fondo del mulinello nel tentativo di esercitare un freno e rallentare quella corsa spaventosa. Non ricordo quanto tempo  ci mise il salmone  per attraversare  un lungo tratto del fiume nella sua fuga verso l'altra riva. Probabilmente pochi secondi anche se ha me sembrarono più lunghi perché avevo perso la dimensione del tempo, assorbito da un insieme di emozioni che mi impedivano di ragionare. In un attimo mi passarono davanti agli occhi, altre esperienze di pesca,  pure suggestioni astratte che risalivano come nebbie evanescenti dal pozzo dei ricordi immagazzinati nella memoria. Catture di trote  sui fiumi vicini a casa in Toscana, o temoli e trote sui meravigliosi fiumi Jugoslavi come l'Unec, il Soca  con le sue magiche acque turchesi, il Gacka e le stupefacenti schiuse di May Fly, le bollate indimenticabili alla mosca secca... Ma intanto il peso che sostenevo con le braccia era enorme. Tenevo la base della canna appoggiata a destra sotto la cintura e dovevo impiegare una notevole energia per controllare la fuga del salmone.  La canna disegnava un semicerchio sottoposta com'era alla potente trazione di quel pesce scatenato. Mi domandavo se tutto avrebbe retto, non la canna di cui avevo completa fiducia ma il nodo della mosca, l'acciaio dell'amo e sopratutto il finale, che pur essendo un venti libbre  ora sentendo con quanto peso, forza  e rabbia   lottava il pesce, mi sembrava insufficiente. 

   "Laggiù salta!    Laggiù salta!   gridarono mentre la balena bianca si scagliava come un salmone verso il cielo nella sua colossale bravata. Vista così di colpo nella piana azzurra del mare, e  stagliata sul margine anche più  azzurro del cielo, la schiuma  che alzò per un attimo scintillò  e sfolgorò  accecante come un ghiacciaio"
"Moby Dick"  -  H. Melville

Dopo che il salmone aveva percorso una buona parte del fiume in direzione della riva opposta, vidi la superficie  gonfiarsi spinta in alto da una massa subacquea smisurata ed esplose quando uscì completamente dall'acqua con un  salto acrobatico, fece in aria un avvitamento su sé stesso e ripiombò con una violenta spanciata sulla superficie liquida che si ruppe in tutte le direzioni come in una esplosione  magmatica. La coda si allentò di colpo e pensai di averlo perso.  Quando finalmente vidi il salmone nella sua smisurata dimensione pensai che mai e poi mai sarei riuscito a catturarlo. Era un King  molto più grande di quanto mi sarei immaginato e la lotta che opponeva alla cattura era rabbiosa. Di colore marrone-rossiccio con la testa più scura quasi nera, mi sembrò gigantesco e ad occhio lo valutai circa una ventina di chili per una lunghezza superiore al metro. Non avevo mai catturato nella mia vita di pescatore a mosca un pesce come quello, neanche nei miei sogni. Immaginai che anzi quello fosse il pesce che un pescatore  sogna spesso di poter catturare prima o poi nella vita. Una specie di ossessione che porta noi pescatori a mosca, ma non solo, alla sindrome del "Capitano Achab" e della sua "Moby Dick".  In realtà non c'era tempo per ragionare o per ricordare le appassionanti avventure marinare di Melville, perché il salmone Moby Dick, rientrato  nel suo elemento liquido ripartì di nuovo velocemente nella stessa direzione, fece alcuni metri e ancora una volta uscì dall'acqua con tutta la sua rabbia. La coda si allentò e nuovamente ebbi la sensazione che si fosse slamato. Per fortuna non era così e ritornato nell'acqua scura e schiumosa ripartì per nulla intimorito dalla forza che la mosca opponeva alla sua lotta. Saltò ancora con un volo spettacolare e poi riprecipitò  provocando un rumore forte, uno schianto che si diffuse nel fiume. Mi facevano male le braccia a sostenere la canna da pesca sottoposta alla pressione di quella specie di demonio scatenato che, con tutti i salti che faceva, sembrava  comportarsi piuttosto come una trota o forse un temolo che quando viene ferrato, molto spesso, compie una serie di salti funanbolici fuori dall'acqua cercando di liberarsi dell'amo. Non immaginavo che un salmone di quelle dimensioni potesse comportarsi nello stesso modo.  I gabbiani che si trovavano dal lato del fiume dove il King stava cercando di liberarsi dalla presa dolorosa dell'amo, probabilmente spaventati da tutte quelle evoluzioni si erano alzati in volo e  giravano in aria a poca altezza in un cielo fattosi scuro. Il salmone sembrò fermarsi e forse la lotta che opponeva duramente, tutti i salti e gli affondi lo avevano stremato. Anch'io ripresi un po' di fiato. Avevo in acqua, credo, settanta o ottanta metri fra coda finale e baking,  e il King che era giunto  dall'altra parte del fiume li teneva completamente tesi con forza. Cedendo alla trazione che io esercitavo si era posizionato lentamente nel centro del fiume fra i sassi sul fondale, opponendo tutta la potenza di cui era capace, con  strappi di una violenza straordinaria, che  scuotevano la canna da pesca e mi facevano temere per la sua tenuta, nel tentativo di liberarsi dall'amo che lo bloccava, da quella forza che faceva male e gli impediva di muoversi come voleva. Io però ero ben deciso a portarlo a riva e quindi continuavo ad oppormi alla sua energica reazione  con tutta la forza possibile. Improvvisamente iniziò a venirmi incontro, direttamente verso di me  ad una discreta velocità anche se non  velocissimo. La coda si allentava e cominciai a recuperarla nel mulinello rapidamente per impedire che la perdita della tensione della canna da pesca col salmone, potesse facilitarne la slamatura, anche perché l'amo era senza l'ardiglione che avevo schiacciato con le pinze come imponeva il regolamento di pesca. Pensavo continuamente che sarei stato molto fortunato se fossi riuscito a portare a riva quel pesce scaltro e combattivo,  ma senza scoraggiarmi  continuai a recuperare il filo che si allentava pericolosamente. Giunto al centro della corrente decise di cambiare direzione e invece di proseguire verso di me, prese la direzione della corrente e si diresse verso valle mettendosi di lato. In questo modo al peso già enorme del salmone a cui dovevo oppormi si aggiunse moltiplicato quello della pressione che l'acqua esercitava  su di lui. Mi sembrò tuttavia, che il momento peggiore fosse superato e nella mia mente fece capolino la speranza di riuscire a catturare il grande salmone. Iniziai a muovermi lentamente sulla riva  ingombra di alberi morti, di rami spezzati e mezzi affondati nell'acqua che, proprio in quel punto, formava anche delle buche piuttosto profonde. Dovevo fare molta attenzione a dove mettevo i piedi perché c'era il pericolo  che uno spezzone di legno potesse rompere gli stivali o peggio ancora farmi cadere. La cosa non fu facile ma aggirando gli ostacoli ed entrando in acqua, arrivai sull'argine che delimitava l'ingresso del piccolo torrente nel corso principale del Kitimat River.  Il King intanto non esercitava più la resistenza accanita che aveva manifestato fino a poco tempo prima. Mentre mi stavo spostando verso  valle si era lasciato portare dalla corrente, quasi senza reagire. Era stanco. Aveva combattuto con tutta la sua enorme forza consumando molte energie ed ora era sfinito. Io avevo continuato a recuperare la coda nel mulinello, forzando il recupero in modo da portarlo più vicino a me. Lo forzavo e recuperavo piano piano il filo nel mulinello, "pompandolo", come si dice in gergo. Il salmone si lasciava portare verso di me esercitando con la sua massa solo una opposizione modesta, passiva. Con calma superò la zona di acqua più veloce e giunse sul lato del fiume da dove pescavo. Io mi trovavo in  una posizione abbastanza elevata, sull'argine del braccio d'acqua che entrava nella corrente.  Il salmone si trovava ad alcuni metri dalla riva del fiume a valle del braccio che entrava nella corrente largo, come ho detto,  almeno una trentina di metri. Scesi nell'acqua bassa tenendo la coda di topo  in tensione, mentre le  piccole pietre del fondo si allargavano con un mormorio  intorno ai miei passi attenti. Fermo al centro del torrente recuperai altri metri di baking nel mulinello, come Lachesi, la dea greca del destino che sistemava il filo sul rocchetto della vita che Atropo l'inflessibile, poteva tagliare in ogni momento. In questa lotta col salmone ero io che  tenevo in mano il filo del suo destino, o almeno lo pensai in quel momento.  Il salmone che nuotava al confine della zona di acqua corrente, ignaro delle mie riflessioni, si lasciò portare docilmente ad un paio di metri dalla riva di sabbia e sassi. Pensai che ormai fosse finita e che presto avrei avuto il piacere di avere fra le mani quel salmone "maestoso". Nel punto dove i due bracci si riunivano l'acqua chiara come il vetro, mi permise di vedere il "King";  i nostri occhi si incrociarono  da circa dieci o quindici metri. Pressoché fermo vicino alla superficie, era enorme e bellissimo esattamente come lo avevo giudicato quando era volato con quel salto verso il cielo. Aveva dei colori straordinari e muoveva appena la coda e la pinna dorsale che uscivano fuori dalla striscia d'acqua piatta. Sembrava guardingo come se fosse in attesa che succedesse qualcosa  per scattare  con le ultime forze risparmiate.  Sicuramente mi vedeva, deformato a causa  della distanza e per la rifrazione che la luce e l'acqua provocavano sulla sua vista. Temevo che avvicinandomi troppo velocemente potesse tentare di nuovo di riprendere la corrente, ma sapevo che non dovevo dargli il tempo di recuperare il fiato  e quindi decisi di rischiare superando lo spazio che ci separava. Feci con cautela, uno due tre passi, la canna  con la coda in tensione. Lo guardavo e mi aspettavo una fuga disperata, invece la coda si allentò e cominciò a scivolare morbida verso di me che la fissavo incredulo. Non sentivo più il contatto col salmone e mi domandavo cosa stesse succedendo. Il grande King rimase un attimo immobile e forse, incredulo quanto me. Molto lentamente mosse la coda e si lasciò portare indietro dal filo della corrente impercettibile, girò la testa nera e rientrò nei prati sommersi  della vita, libero!


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Riferimenti Bibliografici: 

Herman Melville -                "Moby Dick" ,                                    Garzanti  1966
Enzo Braschi      -                "Sono Tra Noi"                                 Mursia     1995
Enzo Braschi      -                "Il Popolo del Grande Spirito"           Mursia     1986
K.Recheis/G.Bydlinski           "Sai che gli Alberi Parlano?"            Il Punto   1995
Delia Guasco      -                 "Una Storia degli Indiani                 Demetra   1999
                                            del Nord America"                  
Walter Pedrotti -                 "Dal Popolo degli Uomini"           Acquarelli D'Oro 1995

James A. Michener                "Alaska"                                        Bompiani 1998

I quadri delle Aquile dalla Testa Bianca con i Villaggi dei "Nativi" indiani Haida e Kasan che vivevano sulle  coste  delle  isole   Queen  Charlotte   e  Prince of Walls  in  British Columbia,  sono  dell'artista canadese, Gordon  Miller. La mia foto all'inizio dell'articolo, è di Gianni Gronchi, del negozio di pesca a mosca di Firenze, "Fly Fishing Top", che ringrazio.
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